NOI SIAMO RIMASTI SOLIDALI

La quarantena vissuta in una fabbrica autogestita
Il 20 marzo l’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori di Rimaflow disponeva “la chiusura della fabbrica a partire dal 23 marzo fino al termine dell’emergenza. La fabbrica, in quanto bene comune, sarà attiva per la continuazione delle attività essenziali come la distribuzione degli alimenti e la neonata produzione di mascherine…i lavoratori e le lavoratrici sono in assemblea permanente sul gruppo WhatsApp e seguono l’evoluzione della situazione”.

In questo breve stralcio che riporta una decisione preceduta da settimane di confronti continui sta l’essenza stessa dell’esperienza di Rimaflow. La tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, innanzitutto, che in una fase concitata e contraddittoria come quella che ha preceduto il lock-down, ha continuato ad essere il focus principale. Accanto a questo però la necessità di non far venire meno il nostro piccolo contributo alla comunità vasta che negli anni si è raccolta intorno all’esperienza di questa piccola grande eresia. Pochi giorni prima, Fuorimercato, la rete nazionale di cui Rimaflow è uno dei cardini, aveva lanciato la campagna #IoRestoSolidale che impegnava tutti i suoi nodi in un’ottica di supporto fattivo alle comunità locali.
Scelta coerente, necessaria, ma niente affatto scontata per una rete, come quella di Fuorimercato, che collega piccoli produttori, spesso informali, spazi sociali e realtà che praticano l’autogestione e il mutualismo conflittuale. Chiudere gli spazi di socialità, chiedere alle persone di rimanere in casa (scelte tardive ma ovviamente comprensibili) e accreditare, anzi, autocertificare la grande distribuzione organizzata come unico ambito deputato al reperimento dei beni di prima necessità rappresentavano non solo un corto circuito di senso: un sistema che ha prodotto questo disastro non trova nulla di meglio che offrire come soluzione gli stessi strumenti che il disastro hanno contribuito a generare; ma anche l’obiettivo rischio di messa in mora di tutto quell’universo composito che possiamo definire, con un termine un po’ datato, del “consumo critico”.
A Milano avevamo l’obbiettivo di non interrompere la distribuzione dei prodotti alimentari della rete che, oramai da 7 anni, è andata consolidandosi con l’adesione di un numero crescente di GAS e Associazioni sul territorio. Per farlo dovevamo però adattare le nostre pratiche alla nuova fase di complessità progressiva che stavamo vivendo e per la quale non esistevano ricette particolari se non l’analisi continua e la proposta di nuove soluzioni per rispondere a necessità diverse e crescenti. Mentre alla sola grande distribuzione organizzata veniva garantita la piena operatività senza particolari limitazioni, la situazione per i piccoli produttori, specie se informali, si è da subito presentata drammatica. Molti contadini hanno avuto impedito l’accesso ai campi, ad altri è stata impedita la distribuzione dei propri prodotti che si è sommata alla progressiva chiusura di ogni forma di mercato di prossimità. Sul versante dei “consumatori” che noi preferiamo intendere quali co-produttori, le cose non andavano meglio. I limiti imposti alla mobilità dei piccoli produttori, specie per gli spostamenti tra regione e regione, sommata ai limiti alla mobilità personale imposti ai singoli hanno comportato per molti GAS la riduzione sensibile della propria attività se non la sospensione temporanea. Imposta come “naturale” e strutturalmente insostituibile, la scelta di privilegiare la GDO, una delle poche scelte univoche durante la crisi, è in realtà uno degli indicatori più evidenti della improvvisazione e della miopia con cui le istituzioni hanno risposto alla pandemia. E’ infatti incontrovertibile come agricoltura e allevamento industriali siano tra i principali responsabili delle nuove pandemie definite “zoonosi” e cioè del passaggio di virus da specie animali all’uomo. Come altrettanto evidente appare come un sistema che si regge sullo spostamento frenetico di merci sia particolarmente favorevole a massimizzare la diffusione del virus. E, ancora, il lock-down ha mostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, come l’agricoltura industriale sia fortemente dipendente dalla possibilità di sfruttare i lavoratori migranti. L’avere scelto consapevolmente di tenere la fabbrica aperta e la sua attività di distribuzione alimentare operativa ci ha proiettati in una dimensione che, in qualche modo, ha ecceduto l’obbiettivo minimale che ci eravamo proposti.
Noi immaginavamo un “piccolo cabotaggio”, una semplice ri-articolazione di quello che già abitualmente facevamo. In realtà, lo spazio di questa pandemia si è rivelato poi essere una concreta possibilità di rimessa in discussione sistemica, un momento in qualche modo “costituente” dove tutte le fragilità delle nostre reti informali, così elementari a volte e prive di organicità, sono risultate straordinariamente duttili e flessibili. Anni di costruzione di relazioni hanno rivelato, in una fase di totale default del Sistema, un intero sistema nervoso fatto di centinaia di rivoli, piccole o grandi interconnessioni che magari partivano da una parrocchia e finivano in uno spazio sociale. In mezzo, tutta la declinazione possibile della solidarietà come unica risposta e, per ciò stesso, imperativa al disastro che il maledetto sistema ha prima provocato e poi gestito criminalmente. La pandemia ha infatti amplificato le precedenti disuguaglianze sociali; nei fatti, seppur non ancora in possesso di un’analisi sistematica dei suoi effetti sociali, il covid 19 soddisfa tutte le condizioni per essere considerato una pandemia di disuguaglianza. Se questa è una “tempesta perfetta” noi non siamo e non siamo mai stati “sulla stessa barca”.
Le politiche di mercificazione neoliberista hanno deteriorato senza pietà risorse e servizi di sanità pubblica; servizi sociali e reti di supporto istituzionali sono state sistematicamente sottofinanziati per anni. Il personale sanitario, da alcuni applauditi ipocritamente come eroi, ha dovuto esporsi inutilmente al contagio e al rischio di morire. Per giorni e giorni, un gran numero di lavoratori ha dovuto scegliere tra i rischi di andare al lavoro, perdere il lavoro o diventare precari senza avere il “privilegio” del tele-lavoro. A casa (ma non solo) la crisi è stata affrontata quasi esclusivamente dalle donne a cui, ancora nel 2020, viene quasi delegato interamente il lavoro di cura. Accanto a questo esercito del lavoro precario o precarizzato dalla contingenza ce ne stava però un altro “invisibile” e certo non meno numeroso. Quello composto dalle famiglie degli “ultimi”, dei mille lavoretti informali per garantirsi un minimo di sussistenza, quello che non rientra neppure negli elenchi dei Servizi Sociali del Comune.
In questo spazio, drammatico e pure entusiasmante, Rimaflow ha potuto svolgere un piccolo ma importante ruolo mettendosi in ascolto di quelle che erano le necessità insorgenti sul territorio.
Abbiamo in pratica raddoppiato il lavoro, passando da 1 ordine a 2 ordini mensili, distribuendo al domicilio delle singole famiglie gli ordini per i GAS  di Settimo, Baggio, Il Germoglio, I Gastronauti, Arcipelago e per i GAS LoLa e Martesana abbiamo consegnato “spacchettati” gli ordini presso il Centro Sociale Lambrate. Nel frattempo molti Gas hanno smesso di operare.
Abbiamo fatto un accordo di rete con QuBi per il quale distribuiamo settimanalmente pacchi alimentari nel Quartiere Baggio; mentre nei Quartieri Barona e Giambellino, nell’ambito del progetto “Stiamo Freschi” abbiamo messo a disposizione le nostre strutture e coordinato il reperimento, la preparazione e la consegna di cassette di frutta e verdura per oltre 1500 famiglie in due tornate successive. Abbiamo inoltre distribuito prodotti alimentari secchi e per l’igiene, donate a Rimaflow per circa 5 tonnellate, a diverse piccole associazioni e brigate volontarie.

LA PRODUZIONE DI MASCHERINE
Questa emergenza sanitaria ha mostrato l’altra faccia della globalizzazione, il flusso commerciale delle mascherine facciali prodotte principalmente nei paesi asiatici, nella fase di chiusura e di distanziamento si è interrotto causando ingenti danni in termini di vite umane e confusione generale. È noto che nelle prime fasi della crisi gli ospedali non erano attrezzati per proteggersi dall’aggressività di un virus  grande non più di tre micron. Rimaflow nata nell’emergenza della crisi economica del 2008, non ha potuto restare a guardare e commentare la grave situazione gestita in modo precario dalle istituzioni, ma è la volontà di essere protagonisti del proprio futuro che ha fatto sì che due artigiani, Patrizio il tappezziere e Donato il pellettiere, abbiano iniziato a produrre mascherine facciali. Fin da subito la struttura societaria si è attivata per supportare questi due artigiani, attraverso la ricerca di materiali idonei per produrre una mascherina sicura. Il filtro centrale che si posiziona tra due strati di TNT il Melt Blown, difficile da reperire in quelle fasi concitate, siamo riusciti ad acquistarlo da una società “Ramina” che da produttore d’impianti si è trasformata in produttore del filato. Attraverso un nostro tirocinante detenuto, Matteo, siamo entrati in contatto con un gruppo di detenuti organizzatisi in associazione “Catene in movimento”, specialisti in sartoria teatrale e anche questi nella fase di emergenza hanno prodotto migliaia di mascherine per altri detenuti. Si è chiesto e ottenuto in poco tempo dall’amministrazione Penitenziaria di Bollate una convenzione che ci ha permesso di assumere a domicilio ulteriori 4 lavoratori detenuti. L’esperienza di collaborazione fatta di artigiani, lavoratori (i soci lavoratori di rimaflow non avevano mai visto una macchina da cucire ma dopo una settimana cucivano oltre 300 mascherine al giorno), i detenuti lavoratori, insieme abbiamo dimostrato una volontà e una voglia di riscatto indescrivibile. A questo progetto hanno lavorato anche artigiani: falegname, fabbro e scenografo per la realizzazione degli impianti produttivi per industrializzare la fase di taglio dei tessuti. L’organizzazione è stata svolta attuando i protocolli previsti per ridurre la diffusione del contagio del virus tra i lavoratori.
Questa esperienza convince ancora di più che la responsabilità del proprio futuro non può essere delegata. Alcune forme di potere devono essere trasferite al territorio, la responsabilità sociale di ogni individuo di ogni ente deve essere evidenziato e premiato con forme di sostegno economico e sociale con il fine di non disperdere le capacità d’intervento su tutto il territorio.

Un grande lavoro, che ci ha permesso di fare attraversare fisicamente la fabbrica da decine di volontarie e volontari con cui abbiamo potuto scambiare esperienze. Un lavoro di cui siamo particolarmente orgogliosi perché invera quello che è uno dei presupposti dell’esistenza di una esperienza come quella di Rimaflow: “gli ultimi che vengono aiutati dai penultimi”. Ma, al contempo, siamo consapevoli di come nessuno sforzo, per quanto grande e generoso, possa rappresentare da solo un cambiamento. La grande comunità solidale che si è rivelata negli ultimi mesi deve diventare uno spazio permanente di elaborazione politica che sappia immaginare e sostenere con le pratiche una svolta. Perché “tutto non può tornare come prima se il prima era il problema”. Noi continueremo a tenerci lontani da soluzioni autoassolutorie o da riproposizioni patetiche di rappresentanza politica, contribuendo con gli strumenti concreti dell’autogestione e la ricerca continua di superfici di contatto con chiunque continui a praticare un “altro mondo possibile”.

Spartaco Codevilla e Massimo Lettieri